In mostra a Milano “Muholi. A Visual Activist”

Da venerdì 31 marzo 2023, il Mudec di Milano ha aperto le porte al pubblico con la mostra “Muholi. A Visual Activist” il progetto attraverso cui porta in Italia una selezione – curata da Biba Giacchetti e dall’artista Zanele Muholi – di oltre 60 immagini e 10 anni di lavoro introspettivo. Muholi rivolgono l’obiettivo verso sé stessi e le loro fotografie permettono di dare voce, attraverso un’immagine fortemente incisiva, a una minoranza ancora soggetta a ingiustizie sociali e stereotipi. Le opere, con una poetica fortemente impegnata a indagare e sostenere i diritti umani e, in particolar modo, quelli delle comunità LGBTQIA+ cui sono stati dedicati anni di attivismo e ricerca, sono un veicolo, un amplificatore, quasi un megafono capace di toccare le corde degli addetti ai lavori dell’arte contemporanea, ma anche, e soprattutto, quelle del grande pubblico.
La mostra è promossa dal Comune di Milano-Cultura, prodotta da 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE in collaborazione con SUDEST57, e vede come Institutional Partner Fondazione Deloitte.

Il Mudec, Il Museo delle Culture di Milano, si conferma quindi, ancora una volta, come luogo di incontro, opportunità e innovazione a servizio della multiculturalità intesa come risorsa e occasione di crescita, dando forma, spazio e visibilità alla valorizzazione delle differenze.
La promozione di percorsi come la mostra di Muholi documenta, quindi, un messaggio di integrazione, apertura, scoperta e rafforza, cosí, la presenza sociale secondo i principi di una educazione attiva.
Ci troviamo davanti ad un modo di riscrivere l’arte, guardando all’estetica in un modo differente e aprendo chiaramente un dibattito necessario e interessante sul tema delle comunità LGBTQIA+ e di una mancanza di visibilità delle comunità nere, anche e non solo all’interno di un contesto come quello della realtá italiana. Abbiamo spesso l’idea che l’Europa possa essere il baricentro del mondo, ma l’attualità non fa che confermare che dobbiamo aprire, invece, i nostri confini fisici e mentali.

Possiamo affermare che le diversità sono profondamente accolte? Quali sono quindi le interconnessioni tra la neutralità di un linguaggio e le immagini stesse? Su quali premesse si fonda il messaggio dell’artista? Esiste uno sguardo sessualizzante, attraverso il quale il mondo è sempre stato abituato a vedere, oppure l’occhio, elemento su cui Muholi sembra concentrare molte delle sue foto, può diventare un elemento neutro capace di ridefinire il “ruolo” e l’aspetto “ideale” dei corpi nella nostra società?
Sono tante le domande che si pongono data la grande complessità del tema.

Zanele Muholi – preferibilmente solo Muholi – è artista, individuo che ha scelto di definirsi al plurale, usando il pronome “loro” anzichè che “lui/lei”, ma non è né un collettivo, né un gruppo di artisti. Questo articolo, dunque, vuole rispettare la scelta di Muholi nell’intento di interpretare e rispettare al meglio la sua voce. 
Muholi, nascono nel 1972 a Umlazi, Durban in Sud Africa. durante il periodo dell’apartheid, plasmati dalla violenza di quel regime e dalle sanguinose lotte per la sua abolizione. Per questo, da sempre, la loro arte pone l’attenzione sull’intolleranza e la violenza dilaganti nei confronti di comportamenti non eteronormativi in Sudafrica, sottolineando il pericoloso paradosso di vivere in un paese in cui i diritti delle persone LGBTQIA+ sono vincolati dai costumi sociali dominanti e di come, sebbene protetti dalla legge, tuttavia, persistano crimini d’odio e violenza smisurata che, se non raccontati, potrebbero rimanere nascosti e taciuti. Muholi amano definirsi visual activist, prima ancora che artisti e dai primissimi autoritratti, ai più recenti lavori, ci portano a osservare la parte intima dei loro scatti indagando sia la loro dimensione pubblica che quella privata, con la carica del loro sguardo-verità profondo e personale. Attraverso la fotografia, i video e le installazioni radicate nel contesto del Sudafrica, la serie mette in luce, creando momenti di celebrazione e dolore, la necessità di sviluppare un pensiero critico cercando di cambiare la narrazione di questi temi. Il loro lavoro è per un’idea dell’arte non disgiunta dalla vita, è un veicolo per la giustizia sociale che funge da archivio continuo, registrando e preservando la storia delle comunità LGBTQIA+ nel nativo Sudafrica e all’estero.

La mostra grazie all’ausilio di luci, tecnologie e ad uno uso sapiente dell’architettura, è un’esplorazione visiva tramite la fotografia di ritratti in bianco e nero. I corridoi e le ampie sale guidano il pubblico in un lungo viaggio nella creazione, mappatura, preservazione della storia per sviluppare uno sguardo critico di fronte alla realtà della perdita e del dolore, per aiutare a riflettere su come la guarigione, l’empatia e l’empowerment possano essere raggiunti nonostante il trauma collettivo, e come la fotografia stessa possa essere usata allo stesso tempo come agente di ricostruzione e di attivismo.
Sono opere di alta qualità estetica, etica e morale. Hanno infatti audacia, potenza e sono pertanto utili alla denuncia, a servizio di un messaggio politico e ideologico. Da ogni pixel, poro della loro immagine, attraverso ritratti e con un focus sul corpo, traspare la forza attiva dalla difesa dei diritti alla libertà di genere e sesso, dove, senza nessun voyerismo, si esprime la carica di sentimento fiducia, gioia e convinzione nelle identità di ogni condizione umana.

In queste immagini potentissime, in questo gioco di bianco e nero intenso, l’occhio non è oggetto, ma soggetto e rendendosi protagonista trasforma il concetto di genere della figura umana in cui il valore dei corpi non è giudicabile tramite uno sguardo (quindi un unico punto di vista) ma tramite le sensazioni ed emozioni scatenate da un insieme di elementi.
Si ribalta cosí il concetto di autoritratto che qui si fa invece narrazione di una moltitudine e si discosta dal ruolo legato al puro e semplice scopo di appagare, sostenere, accomodare e di conseguenza farsi accettare, dallo sguardo dello spettatore.

L’uso alternativo di oggetti di semplice quotidianità si fa, pertanto, metafora ed espressione di valenza fortemente simbolica. Vediamo, quindi, una rilettura di oggetti come corde, cavi della luce, mollette, banconote, pinze, o pneumatici, utilizzati come accessori che si trasformano in collane, sciarpe o cappelli e dialogando con il corpo lo completano e lo trasfigurano, raccontandoci così “altro”, e spingendoci con lo sguardo stesso dei Muholi a un atto di ricerca, resistenza, e superamento dei confini delle strutture di una narrazione stereotipata e conforme.

In mostra è visibile anche una installazione site specific realizzata ad hoc per il Mudec.
Muholi aprono simbolicamente la loro camera da letto con una rappresentazione di un oggetto, il letto appunto, che si fa metafora della sfera dell’intimità, intesa come spazio domestico nel quale poter vivere liberamente la parte più vulnerabile del proprio io, ma anche e troppo spesso, teatro di violenze domestiche. Nell’opera leggiamo, quindi, un forte significato simbolico e introspettivo nella narrazione di un abbraccio tra l’artista e la compagna scomparsa, raffigurati sull’ intera superficie del copriletto in cui la fragilità, il senso di rifugio protettivo e l’istintività dell’essere umano si raccontano. “Con questa installazione esclusiva – commenta la curatrice della mostra Biba Giacchetti – Muholi vogliono comunicare come il riposo, la necessità dell’abbandono all’altro, siano componenti universali della natura umana e trascendano le logiche di razza genere e sessualità.

Lo spettatore è quindi invitato a lasciare la mostra con tante domande e uno spirito critico, qui abbiamo tutti un ruolo da svolgere, e domande da porci. La resistenza non è mai un processo lineare e mostre come questa stanno aprendo la strada ad altri che, nel voler uscire allo scoperto, riescono a guardare le fotografie, leggere le biografie e capire che non sono soli.

Mariantonia Cambareri